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Perché non chiuderle?

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Perché non chiuderle? Empty Perché non chiuderle?

Messaggio  Yorick Mer 2 Dic 2009 - 15:09

Uniocamere valuta un'eccedenza di circa 15.000 laureati in scienza della comunicazione, scienze politiche e sociologia, e di circa 18.000 laureati in scienze umanistiche (in particolare il riferimento è a laureati in lettere, lingue e psicologia) in eccesso rispetto alle aspettative del mondo del lavoro.
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Perché non chiuderle? Empty Re: Perché non chiuderle?

Messaggio  Hirundo Hiberna Mer 2 Dic 2009 - 17:24

Ma perché chiuderle? Perché non selezionare? Ma mi riferisco solo a Lettere. Le altre, per me, devono chiudere senz'altro.
HH


Ultima modifica di Hirundo Hiberna il Ven 4 Dic 2009 - 15:44 - modificato 1 volta.
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Perché non chiuderle? Empty CHIUDERE? SELEZIONARE? NO, LAVORARE!

Messaggio  Giancarlo_Samperi Ven 4 Dic 2009 - 3:10

Beh, non capisco la discriminazione tra Lettere e le altre facoltà umanistiche.
Ho la presunzione di pensare che se tra queste ve ne sia almeno una a meritarsi un'esenzione, sicuramente è Lingue, dato che per antonomasia è la laurea che dà la maggiore possibilità di lavorare oltralpe (in uno Stato che chissà, magari, non sia così garantista con i dipendenti pubblici e tanto esigente con gli anni di servizio per il pensionamento, causa principale di questo "surplus" di neo-laureati-disoccupati...)

Consiglio caldamente la lettura del rapporto annuale della Fondazione Agnelli...ecco un link, ma se potete, scaricatela in PDF perchè è la versione più completa (e si evince da tale rapporto che Lingue, e non Lettere, è la facoltà umanistica con maggiori sbocchi).

P.S. Se le facoltà umanistiche chiudessero bottega, penso proprio che stessa sorte toccherà a tutti i licei classici...


http://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:7Mp-kcttdfAJ:www.apefassociazione.it/documenti/REPORT%2520FONDAZIONE%2520AGNELLI.pdf+rapporto+agnelli+lingue&hl=it&gl=it&sig=AHIEtbR8IH0bMRS8Y6GLC1hJsvMAf1-azg
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Messaggio  Giovanni T. Ven 4 Dic 2009 - 19:02

Secondo me nessuna delle facoltà proposte dal prof crea sbocchi lavorativi. Ne lingue, ne lettere, ne scienze della comunicazione, ne scienze politiche. Chi sceglie queste facoltà lo fa per passione, non perchè un domani troverà lavoro. A mio modo di vedere, diversamente da facoltà anch'esse affollatissime come economia o giurisprudenza, lo sbocco naturale per una facoltà come lettere è la ricerca. Punto. Non vedo ambito aziendale (o della libera professione) dove un laureato in lettere, lingue ecc.. abbia specifiche competenze non possedute da eventuali altre figure professionali.

Giovanni T.

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Messaggio  Giancarlo_Samperi Sab 5 Dic 2009 - 5:11

il russo e il tedesco in effetti fanno parte del bagaglio culturale dell' italiano medio...
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Messaggio  Giovanni T. Sab 5 Dic 2009 - 17:36

Il problema è che sei sai solo il russo o il tedesco non vai da nessuna parte. Se invece conosci il russo o il tedesco giuridico ed hai buone conoscenze del mondo economico e contrattuale, ecco che allora nasce una figura professionale utile in una azienda.
Paradossalmente (è solo una mia ipotesi non conoscendone in dettaglio i piani di studio) una facoltà quale "Scienze della comunicazione internazionale" potrebbe essere più utile a fini lavorativi rispetto a una "lingue e culture europee". Le lingue si imparano in entrambe, ma lo scopo per cui lo si fa è diverso.

Giovanni T.

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Messaggio  Hirundo Hiberna Mar 8 Dic 2009 - 10:45

Quanti ne abbiamo letti di articoli così????
HH
No
La maggior parte dei giovani ignora grammatica e sintassi. Anche nelle università
Viaggio in un Paese che non conosce più la sua lingua
Italiano, questo sconosciuto
"Studenti quasi analfabeti"
di MAURIZIO CROSETTI



Io cossi tu cuocesti egli cosse: cos'è 'sta roba? Piccolo esame di verbi: "Se io sarebbe più abile, tu mi affiderai una squadra". Ma anche: "Se tu saresti più alto, potessi giocare a pallacanestro". Nel cimitero dove giacciono, insepolte, sintassi e ortografia, accenti e apostrofi si confondono in un'unica insalata nizzarda di parole: "Non so qual'è la prima qualità di un'uomo". E tutto questo accade, si legge, si scrive all'Università.
Test d'ingresso per le facoltà a numero chiuso, anno di disgrazia 2009: alcuni degli aspiranti dottori del terzo millennio hanno risposto così. "I giovani che arrivano dalle scuole superiori sono semi-analfabeti", ha dichiarato il magnifico rettore dell'ateneo bolognese, Ivano Dionigi.

E chi ha già superato il traguardo della laurea non sta poi tanto meglio: secondo una ricerca del Centro Europeo dell'Educazione (CADE, o forse sarebbe meglio dire casca: l'asino), l'otto per cento dei nostri laureati non è in grado di utilizzare pienamente la scrittura. Anzi, peggio: 21 laureati su 100 non vanno oltre il livello minimo di decifrazione di un testo. Cioè, se proprio va bene riescono a far partire la lavastoviglie leggendo le istruzioni, oppure intuiscono le controindicazioni dell'aspirina. Ma di più no.

Ancora: un laureato su cinque non riesce a dirimere un'ambiguità lessicale. E un laureato su tre ha meno di cento libri in casa, quasi sempre quelli che ha (più o meno) sfogliato per arrivare al pezzo di carta. Ma su quella carta, troppo spesso è come se fossero impressi geroglifici. E non parliamo poi di quando è necessario scrivere un testo.

Per questo, molti atenei hanno deciso di organizzare corsi di recupero di italiano per le matricole: grammatica e sintassi, cioè argomenti da prima media. "I ragazzi non conoscono il significato di espressioni lessicali banalissime", spiega Pier Maria Furlan, preside di Medicina 2 a Torino, dove appunto si torna sui banchi quasi per fare le aste, e per ripassare (o per studiare?) il congiuntivo. "Credetemi, è una situazione da mettersi le mani nei capelli. Per fortuna, gli studenti sono abbastanza consapevoli dei propri limiti: gli iscritti ai corsi di recupero sono oltre 35 su cento".

Come nasce lo "studente analfabeta"? Quando comincia a diventarlo? "I guasti iniziano nella scuola dell'obbligo", risponde Tullio De Mauro, il padre degli studi linguistici italiani. "Il buonismo degli insegnanti ha fatto grossi danni, ormai si tende a promuovere un po' tutti e non si sbarra il passo a chi non è all'altezza. Ma il disprezzo per la lingua italiana risiede anche in certi romanzi di nuovi autori, pieni di parolacce e di inutili scorciatoie, e nel linguaggio sempre più sciatto dei giornali dov'è quasi scomparsa la ricchezza della punteggiatura".

Insomma, oggi s'impara poco anche leggendo. E si studia male. "Credo che il predominio dell'inglese stia nuocendo all'uso dell'italiano", sostiene il noto linguista Gian Luigi Beccaria. "Ormai è necessario alfabetizzare adulti e ragazzi, e la colpa è di un intero percorso scolastico che non sempre funziona. Le lacune nascono da lontano. Inoltre, l'uso esclusivo di telefoni cellulari e computer come strumenti di comunicazione non aiuta la nostra lingua: l'italiano sta regredendo quasi a dialetto". Lasciando perdere gran parte della narrativa italiana contemporanea, dov'è possibile far tesoro della lingua giusta? "Leggendo o rileggendo autori esemplari per pulizia dello stile e chiarezza: penso a Primo Levi, a Calvino, ma anche a Pirandello e Pavese, oppure al Fenoglio di Primavera di bellezza, mentre Il partigiano Johnny è più complesso".

Secondo recenti e sconfortanti statistiche, il venti per cento dei laureati italiani rischia l'analfabetismo funzionale, cioè la perdita degli strumenti minimi per interpretare e scrivere un testo anche semplice. E la percentuale sale tra i diplomati: trenta su cento possono diventare semi-analfabeti di ritorno. Una delle cause può essere l'abbandono della grammatica e della fatica della sintassi: già alle medie non si studiano quasi più, figurarsi al liceo. Nella scuola superiore, ormai pochissimi insegnanti si sobbarcano la correzione di trenta temi pieni di bestialità, una fatica tremenda e scoraggiante. E guai se non si promuove chiunque: scatterà la reazione anche violenta delle famiglie (sempre più spesso si rivolgono all'avvocato per rintracciare vizi di forma nei registri, anche dopo la più sacrosanta delle bocciature dei loro pargoli).
"Siamo molto preoccupati", dice Franca Pecchioli, preside di Lettere a Firenze. "Se gli studenti non sanno dov'è il Mar Nero, beh, è grave ma glielo possiamo insegnare. Ma se non sono in grado di seguire la spiegazione di un docente perché ignorano il significato di certe parole, allora è peggio". Ha un suono sinistro anche la testimonianza di Elio Franzini, preside di Lettere alla Statale di Milano: "L'anno scorso, insegnando ai primi anni di filosofia chiesi chi avesse letto Proust, e alzarono la mano in tre. E quasi nessuno sapeva chi avesse scritto Delitto e castigo".

Invece è palese il delitto nei confronti della lingua italiana, o di quella che dovrebbe essere la formazione universitaria: tra i paesi industrializzati, solo Messico e Portogallo stanno peggio di noi. Vale forse la pena ricordare che in Italia soltanto 98 persone su mille acquistano ogni giorno un quotidiano, mentre in Giappone sono 644. Un problema di formazione, o di scarsa informazione? "Siamo di fronte a un'autentica violenza nei confronti della parola", risponde Giovanni Tesio, critico letterario e docente all'Università del Piemonte Orientale. "Ma non dipende solo dalla scuola: la colpa è anche delle famiglie e dei modelli culturali. La prevalenza dell'immagine porta a una disattenzione verso i testi, e comunque è vero che mancano le basi. Me ne accorgo correggendo tesi di laurea non solo scritte male, quello sarebbe il meno, ma anche piene di strafalcioni. Perché per decenni si è demonizzata la grammatica, come se tutto dovesse essere facile e divertente. Ebbene, a scuola non tutto può né deve esserlo. Un'altra fesseria è credere che la grammatica s'impari leggendo, quello è un universo che non accetta usi strumentali". Ma l'analfabetismo dei laureati può essere arginato? "Siccome la letteratura è il luogo in cui il senso della complessità diventa più forte, io la insegnerei anche nelle facoltà scientifiche".
Forse in Italia manca un vero sistema di educazione per adulti, non siamo più capaci di aggiornarci, allenando cervello e conoscenza come se fossero muscoli. La faciloneria portata da Internet, strumento meraviglioso e banale, ricco di potenzialità ma anche di comode tentazioni, ha ormai diffuso una specie di cultura del "copia e incolla", attraverso l'utilizzo di una lingua spesso piatta e tutta uguale, riprodotta all'infinito. Molti esami scritti, all'Università, vengono condotti come i test per la patente, mettendo crocette su un questionario; e le relazioni degli studenti procedono con "Powerpoint", un altro strumento che riduce la dialettica a riassunto di qualche schema, sillabando quattro parole.

"Abbiamo vastissima conoscenza orizzontale e istantanea, però non siamo più in grado di approfondire, di scendere nel cuore delle cose", conclude Tesio. Il sessanta per cento degli italiani non ha mai letto un libro (anche se molti di loro, purtroppo, hanno provato a scriverlo). E non è affatto vero che "val più la pratica della grammatica". Altrimenti non sarebbe possibile che 45 laureati su cento ignorino qual è (scritto senza l'apostrofo) il passato remoto del verbo cuocere.

© Riproduzione riservata (8 dicembre 2009) [b]
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