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Messaggio  Hirundo Hiberna Lun 28 Set 2009 - 19:29

Ecco per la II B l'arido schemino dell'analisi del testo. Sui libri o sul web se ne trovano molti, ma più o meno sono tutti strutturati così e del resto per voi sono semplicemente indicativi. Oggi laboratorio su testi di Foscolo.
HH

ANALISI DEL TESTO POETICO

1. Operazioni preliminari

La prima cosa da fare, naturalmente, è una lettura attenta del testo, per una comprensione complessiva dell'argomento (Qual è il tema principale? Di cosa si parla? Il poeta su cosa insiste? Su quali temi richiama la nostra attenzione?).

È utile in questa fase fare, mentalmente o in forma scritta, la parafrasi che non di rado è esplicitamente richiesta.

Si deve porre attenzione all'organizzazione spaziale del testo (individuarne cioè la struttura) e al titolo che spesso è molto significativo e indica il tema centrale.

Si devono tenere presenti le parole-chiave, i campi semantici che indirizzano il lettore su alcuni concetti sottesi al testo. Non sempre il messaggio è esplicito, bisogna individuarlo decodificando le immagini e le suggestioni che il poeta ci trasmette.


3. Analisi e interpretazione del testo

In questa sezione si lavora sul testo, soprattutto sul significante. Il lettore "smonta" l'opera nelle sue componenti fondamentali, per "conoscerla" nella sua struttura profonda. Questo non è un mero esercizio di sterile "vivisezione", ma è un'operazione indispensabile per comprendere la natura del testo e le operazioni, consce o inconsce, dell'autore. Questo sforzo si rende necessario per apprezzare la bellezza di una poesia nella sua interezza, aspetto che, quasi certamente, sfuggirebbe ad una lettura superficiale. L'analisi serve, infine, anche per sostenere e giustificare il nostro commento. È bene seguire un ordine logico, per esempio questo:

a) struttura metrica, fonica e ritmica

Si descrive in questo segmento l'aspetto fonico e ritmico. Si presterà quindi attenzione al metro usato, alle rime, agli enjambements[7], alle assonanze ecc. ma anche alla disposizione delle parole (iperbati e anastrofi per esempio) che creano un certo ritmo o intendono sottolineare una parola collocandola all'inizio o alla fine del verso.

b) aspetto lessicale e sintattico

Si riflette sulle scelte espressive dell'autore e spesso la scaletta chiede esplicitamente precisazioni di questa natura. Si individueranno quindi il registro linguistico, le caratteristiche lessicali (ipotassi o paratassi) e le figure sintattiche (anafora, ellissi ecc).

c) aspetto retorico e stilistico

In questa sezione si considerano le figure retoriche di significato (similitudine, metafora, sinestesia ecc.) e come interagiscono con il piano del significato. Arricchiscono il testo e rendono la comunicazione evocativa ed icastica.

d) inquadramento storico letterario. Approfondimenti

Questo è il momento della contestualizzazione. Si richiamano la poetica dell'autore, la situazione letteraria e il contesto. Si mette in relazione il testo con le altre opere (INTERTESTUALITÀ INTERNA), e con altre opere del momento storico (INTERTESTUALITÀ ESTERNA). Si passa, infine, all'inquadramento letterario e a quello storico vero e proprio. Nella parte finale può essere richiesto un commento personale.


Ultima modifica di Hirundo Hiberna il Lun 10 Mag 2010 - 11:19 - modificato 1 volta.
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Materiale didattico Empty Pediculosi

Messaggio  Hirundo Hiberna Lun 19 Ott 2009 - 14:57

Eccovi le spassosissime ottave in cui Margutte rivela il suo CREDO a Morgante.
Avremo il privilegio di ascoltare la lettura di questo brano, eseguita da Antonio Costantino.
Nel frattempo, siete pregati di leggerle anche voi!

Morgante incontra Margutte, gigante a metà e re dei furfanti

112. Giunto Morgante un dì in su 'n un crocicchio,
uscito d'una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Dètte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: “Costui non conosco”;
e posesi a sedere in su 'n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.

113. Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
- Dimmi il tuo nome, - dicea - vïandante. -
Colui rispose: - Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d'esser gigante,
poi mi penti' quando al mezzo fu' giunto:
vedi che sette braccia sono appunto. -

114. Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:
ecco ch'io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t'ho domandato
se se' cristiano o se se' saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino. -

115. Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch'a l'azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto,
e molto più nell'aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;

116. e credo nella torta e nel tortello:
l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo;
e 'l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch'io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;

117. ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch'io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch'io non son terren da porvi vigna.

118. Questa fede è come l'uom se l'arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d'una monaca greca
e d'un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch'avea fantasia
cantar di Troia e d'Ettore e d'Achille,
non una volta già, ma mille e mille.

119. Poi che m'increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l'arco e 'l turcasso.
Un dì ch'io fe' nella moschea poi sciarra,
e ch'io v'uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;

120. anzi quanti ne son giù nello inferno:
io n'ho settanta e sette de' mortali,
che non mi lascian mai lo state o 'l verno;
pensa quanti io n'ho poi de' venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita.

121. Non ti rincresca l'ascoltarmi un poco:
tu udirai per ordine la trama.
Mentre ch'io ho danar, s'io sono a giuoco,
rispondo come amico a chiunque chiama;
e giuoco d'ogni tempo e in ogni loco,
tanto che al tutto e la roba e la fama
io m'ho giucato, e' pel già della barba:
guarda se questo pel primo ti garba.

122. Non domandar quel ch'io so far d'un dado,
o fiamma o traversin, testa o gattuccia,
e lo spuntone, e va' per parentado,
ché tutti siàn d'un pelo e d'una buccia.
E forse al camuffar ne incaco o bado
o non so far la berta o la bertuccia,
o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?
Io so di questo ogni malizia e frodo.
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Materiale didattico Empty Il canto di Ulisse - Primo levi

Messaggio  Hirundo Hiberna Gio 12 Nov 2009 - 0:41

IL CANTO DI ULISSE da "Se questo è un uomo" di Primo Levi



…Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.

…Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia.

Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:


Lo maggior corno della fiamma antica

Cominciò a crollarsi mormorando,

Pur come quella cui vento affatica.

Indi, la cima in qua e in là menando

Come fosse la lingua che parlasse

Mise fuori la voce, e disse: Quando…


Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare che prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”.

E dopo “Quando”? Il nulla, Un buco della memoria. “Prima che sì Enea la nominasse”. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “…la pietà Del vecchio padre, né’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…” sarà poi esatto?



…Ma misi me per l’alto mare


Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là della barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.

Siamo arrivati a Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. Mi fa un cenno con la mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.

“mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”: “…quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto”, ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:



…Acciò che l’uom più oltre non si metta.



“Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, “ e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia un’osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.

Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:



Considerate la vostra semenza:

Fatte non foste a viver come bruti,

Ma per seguir virtute e conoscenza.



Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.

Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.



Li miei compagni fec’io sì acuti…



…e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. “…Lo lume era di sotto della luna” o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, “keine Ahnung” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.

- ça ne fait rien, vas-y tout de meme.



…Quando mi apparve una montagna, bruna

Per la distanza, e parvemi alta tanto

Che mai veduta non ne avevo alcuna.



Sì, sì, “alta tanto”, non “molto alta”, proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano…le montagne…oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!

Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.

Darei la zuppa di oggi per sapere saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danno per il capo altri versi: “…la terra lagrimosa diede vento…” no, è un’altra cosa. E’ tradi, è tradi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:



Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,

alla quarta levar la poppa in suso

E la prora ire in giù, come altrui piacque…



Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…

Siamo oramai nella fil per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. –Kraut und Ruben?- Kraut und Ruben-. Si annuncia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: -Choux et navets.- Kaposzta es repark.


Infin che’l mar fu sopra noi rinchiuso



(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, pp. 100 - 103)[center]
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Messaggio  The Cyborg Sab 21 Nov 2009 - 19:55

By Hirundo Hiberna:
Ariosto: pag 485 1°-2° paragrafo + 486;
pag 501 A1 A2 A4
pag 507 1° canto - fin dove abbiamo letto insieme -
portare quaderno di italiano con il saggio assegnato in precedenza
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Materiale didattico Empty CALENDARIO DELLE LEZIONI

Messaggio  Hirundo Hiberna Mer 28 Apr 2010 - 19:18

I B

MARTEDI':
Italiano: Laboratorio: parafrasi autonoma e interpretazione del testo. (Canto I del "Furioso").

GIOVEDI':
Italiano: Laboratorio: parafrasi autonoma e interpretazione del testo. (Canto I del "Furioso").
Verifiche orali di letteratura italiana e di Divina Commedia.

MERCOLEDI':
Italiano: Laboratorio: prove di analisi del testo (Petrarca).

II B

LUNEDI':
Italiano: Laboratorio di analisi testuale ("La pena di morte" - Dei delitti e delle pene - fino a lunedì 03 05).
Italiano: Laboratorio di lettura: testi di poesia del '900 + testi liberi.

MERCOLEDI':
Italiano: Divina Commedia.
Latino: Letteratura Latina.

GIOVEDI':
Latino: laboratorio di traduzione (Cicerone)
Latino: laboratorio di analisi testuale (Virgilio)
Italiano: spiegazione di letteratura (l'illuminismo e il neo-classicismo)


VENERDI':
Latino: verifiche di recupero su tutto il programma di classico latino.



III B

La poesia del '900 (dal 27 Aprile 2010 al 28 Maggio 2010)
HH
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Materiale didattico Empty Re: Materiale didattico

Messaggio  Hirundo Hiberna Ven 7 Mag 2010 - 18:20

Dannazione

di Giuseppe Ungaretti

Chiuso fra cose mortali

(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?



NATALE

di Giuseppe Ungaretti


Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare





San Martino del Carso

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato

Sono una creatura (1916)

Come questa pietra

del S.Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata



Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede



La morte

si sconta

vivendo
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Materiale didattico Empty La teoria del piacere

Messaggio  Hirundo Hiberna Gio 20 Mag 2010 - 0:21

Per la III B classico:

Leopardi da “Lo Zibaldone dei pensieri”

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2. né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perché ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perché quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perché la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. (...) Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente, dell’amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll’immensa varietà acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl’istruiti che negl’ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto più negl’ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. (...) Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perché tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perché l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perché immergono l’anima in un abisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo né i contorni. Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito.
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Materiale didattico Empty Ovidio

Messaggio  Hirundo Hiberna Gio 27 Mag 2010 - 19:11

Per la II B classico: oggi abbiamo lavorato su questa traduzione e naturalmente su tutto il testo in lingua. E' stato stimolante e piacevolissimo. Metto qui il materiale, sebbene lo abbiate già in cartaceo. Può sempre servire!
HH

Le Metamorfosi di Ovidio- LIBRO DECIMO

Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo
per l'etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d'uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.
A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde
della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl'Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell'antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest'unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l'ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d'entrambi godrete!».
Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d'afferrare
l'acqua che gli sfuggiva, la ruota d'Issìone s'arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l'urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l'ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell'Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s'inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l'innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell'Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d'afferrarlo ed essere afferrata,
ma null'altro strinse, ahimè, che l'aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d'essere amata?);
per l'ultima volta gli disse 'addio', un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell'abisso dal quale saliva.
Hirundo Hiberna
Hirundo Hiberna

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